Sant'Alfonso Maria de' Liguori (1696-1787)



1. La scelta degli "ultimi"


Sant'Alfonso Maria de' Liguori nasce a Marianella di Napoli il 27 settembre 1696, da nobile famiglia napoletana, iscritta al Sedile o circoscrizione di Portanuova, primo di otto figli. Immatricolato all'università di Napoli all'età di soli dodici anni, dopo aver sostenuto un esame di retorica con il filosofo e storico Giambattista Vico (1668-1744), consegue il dottorato in utroque iure, cioè in diritto civile e in diritto canonico, il 21 gennaio 1713, con largo anticipo rispetto all'età consueta. Dopo due anni di apprendistato inizia l'attività forense, che svolge con onestà e rispetto della verità, superando i pericoli morali che vi erano connessi e diventando presto uno dei più rinomati giureconsulti della capitale, tanto da non perdere mai un processo per otto anni. Si dedica anche alle opere di misericordia e, nel 1715, si aggrega alla Pia Unione dei Dottori, assumendosi il compito di visitare e di assistere i malati del più grande ospedale di Napoli, chiamato degli Incurabili. Nel luglio del 1723 patisce una cocente sconfitta professionale e, riprendendo un proposito della prima giovinezza, decide di abbracciare lo stato ecclesiastico. Il 29 agosto seguente conferma questa sua decisione, deponendo lo spadino di cavaliere davanti a una statua della Madonna nella piccola chiesa della Mercede. Il 27 ottobre 1724 entra come novizio nella Congregazione delle Apostoliche Missioni, e il 21 dicembre 1726, all'età di trent'anni, riceve l'ordinazione sacerdotale. Grande amico del popolo, al quale insegna che tutti sono chiamati alla santità, ognuno nel proprio stato, sant'Alfonso si circonda di ecclesiastici e di laici di ogni ceto, sesso ed età, ovunque organizzandoli in numerose associazioni: degli Operai, dei Gentiluomini, dei Chierici, dei Missionari Diocesani, delle Donne Cattoliche, della Gioventù Femminile, delle Scuole Pie e altre ancora. Infatti, profondo conoscitore dei cuori e delle esigenze delle diverse realtà sociali, vuole un'assistenza materiale e spirituale adeguata alla particolare natura di ognuna di esse. Si dedica in modo particolare ai ceti più umili, compiendo innumerevoli missioni nelle campagne e nei paesi rurali e prodigandosi in un intenso apostolato nei quartieri più poveri di Napoli, dove organizza, fin dal 1727, le Cappelle Serotine, frequentate assiduamente da artigiani e da "lazzari", cioè dal popolo minuto, che si radunavano la sera, dopo il lavoro, per due ore di preghiera e di catechismo. L'opera ha una rapida diffusione e diventa una scuola di rieducazione civile e morale. Sant'Alfonso si rivolge al popolo con i mezzi pastorali più idonei e più efficaci, rinnovando la predicazione nei metodi e nei contenuti, collegandola con un'arte oratoria semplice e immediata. Il dialetto, che egli usa spesso nel contatto con i più umili, non è soltanto veicolo di trasmissione del messaggio evangelico, ma diventa strumento di raffinata poesia, che pone il santo nella schiera dei grandi poeti napoletani. La scelta "preferenziale" per i poveri non significa trascurare la parte più abbiente della popolazione, dal momento che "ultimo" è chiunque si trova in pericolo di perdersi o per povertà materiale o per povertà spirituale e intellettuale. Sant'Alfonso, individuando nella missione verso i poveri e i dotti la necessità del momento, rivolge un'attenzione particolare anche ai nobili e agli intellettuali, perché la Chiesa, assorbita dal punto di vista culturale dal confronto con il giurisdizionalismo e da quello pastorale dalla catechesi popolare, aveva lasciato tali ceti sprovveduti di fronte alla diffusione delle nuove ideologie. Dal moto alfonsiano - che si intreccia ai primi del secolo XIX con la nuova fioritura delle pratiche religiose di spirito ignaziano, soprattutto grazie all'opera di padre Nikolaus Albert von Diessbach S.J. (1732-1798) e del venerabile Pio Bruno Lanteri (1759-1830), nasce una pietà solidissima, che costituisce il principale alimento spirituale delle famiglie cattoliche per tutto l'Ottocento e oltre, specialmente nei centri rurali.


2. Maestro di sapienza e di infaticabile apostolato


Sant'Alfonso presta fin da subito la sua energica mano alla Chiesa travagliata da attacchi interni ed esterni, e si prodiga per migliorare le condizioni spirituali e le sorti materiali del popolo. Il suo carattere positivo lo orienta verso i problemi più immediati della vita dei credenti, scossi nella fede e nelle certezze tradizionali da nuovi movimenti culturali e religiosi, soprattutto l'illuminismo, che minava alle fondamenta la fede cristiana, e il giansenismo, sostenitore di una dottrina della grazia che, invece di alimentare la fiducia e animare alla speranza, portava alla disperazione o, per contrasto, al disimpegno. Si tratta di argomenti cui dedica Breve dissertazione contro gli errori dei moderni increduli, del 1756, e Verità della fede contro i materialisti e deisti, del 1767. Come missionario percorre i paesi vesuviani, gli Appennini e le Puglie annunciando con semplicità i princìpi della vita cristiana. Nel 1732, desiderando evangelizzare con più efficacia le popolazioni del Mezzogiorno, specialmente quelle più abbandonate e più sprovviste di aiuti spirituali, fonda a Scala, piccolo paese sopra Amalfi, la Congregazione del Santissimo Salvatore, poi denominata del Santissimo Redentore, allo scopo vincendo l'ostilità di intellettuali e di uomini di governo, che non volevano sentir parlare di nuovi ordini religiosi proprio mentre operavano per la soppressione di quelli già esistenti. Nel 1762, a sessantasei anni, pur conservando la carica di rettore maggiore della Congregazione, viene nominato vescovo della diocesi di Sant'Agata dei Goti, nel Beneventano. Nel nuovo compito pastorale sviluppa un'attività che ha quasi dell'incredibile, nella duplice direzione del ministero diretto, avviando una riforma spirituale del clero nei tre fondamentali momenti della vocazione, del ministero e della preghiera - e dell'apostolato della penna. La sua produzione letteraria è imponente, dal momento che giunge a comprendere ben centoundici titoli e ad abbracciare i tre grandi campi della fede, della morale e della vita spirituale. Fra le opere ascetiche, in ordine cronologico, si possono ricordare le Visite al SS. Sacramento e a Maria SS., del 1745, Le glorie di Maria, del 1750, Apparecchio alla morte, del 1758, Del gran mezzo della preghiera, del 1759, e la Pratica di amar Gesù Cristo, del 1768, il suo capolavoro spirituale e il compendio del suo pensiero. I suoi scritti, in cui la semplicità dell'esposizione si unisce a una sapienza profonda, saranno tradotti in oltre settanta lingue e avranno circa diciassettemila edizioni. Nel 1775, fiaccato da molte sofferenze fisiche e spirituali, sant'Alfonso lascia la diocesi e si ritira a Pagani, nel Salernitano, in una casa del suo istituto religioso, dove rimane fino alla morte, avvenuta il 1° agosto 1787. Il processo di beatificazione ha inizio già nove mesi dopo. Il 20 febbraio 1807, a meno di vent'anni dalla morte, Papa Pio VII (1800-1823) ne proclama l'eroicità delle virtù e il 15 settembre 1815 lo proclama beato; Papa Gregorio XVI (1831-1846) lo canonizza nel 1839, Papa Pio IX (1846-1878) lo proclama Dottore della Chiesa nel 1871 e Papa Pio XII (1939-1958) lo assegna come celeste patrono a tutti i confessori e moralisti nel 1950.


3. Sant'Alfonso attraverso i secoli


Nel 1871, in occasione della sua proclamazione a dottore universale, fu detto giustamente che tutti gli errori condannati dal Sillabo nel 1864 - deismo, materialismo, liberalismo, socialismo, comunismo, società segrete - trovano una condanna e una confutazione anticipata nei suoi scritti. La fama di sant'Alfonso, notevolissima già nel corso della sua vita, è rimasta inalterata negli oltre due secoli trascorsi dalla sua morte. Uomo di ampia e raffinata cultura umanistica e giuridica, oltre che teologica e filosofica, laico fervente, sacerdote dedito alla rieducazione religiosa, morale e civile del popolo napoletano, missionario, fondatore di una congregazione religiosa, vescovo zelante, scrittore fecondo di opere teologiche e ascetiche, pittore, poeta, musicista, sant'Alfonso è senza dubbio un grande protagonista della storia della Chiesa e della storia tout court. Nel Mezzogiorno porta a termine uno straordinario lavoro di animazione civile e culturale, dotando la Chiesa e la società di numerosi e solidi presìdi, che sarebbero stati lievito della reazione della Santa Fede, che ebbe nel santo il suo preparatore remoto ma profondo, nello stesso senso in cui san Luigi Maria Grignion di Montfort (1673-1716) preparò la Vandea. Inoltre, grazie ai suoi scritti e alla loro ampia diffusione, la consuetudine della meditazione diventa molto comune anche al di fuori della penisola italiana, si radica in tutti i ceti una sapienza cristiana, frutto dell'assimilazione delle massime eterne, e viene promosso il risveglio eucaristico europeo lungo la seconda metà del secolo XVIII e attraverso tutto il secolo XIX. Infine, d'immensa portata è la sua polemica contro il giansenismo, poiché investiva la pratica sacramentale e la concezione stessa di Dio, della Redenzione, della salvezza e della Chiesa. Di fronte al dilagare dell'errore egli opera con alacrità per conservare integra nel popolo la fede in genere e, in specie, la devozione a Maria, e in campo strettamente dogmatico elabora una dottrina della grazia imperniata sulla preghiera, che restituirà alle anime il respiro della fiducia e l'ottimismo della salvezza. Perciò sant'Alfonso segna nella storia della teologia morale una svolta decisiva per la pratica della vita e della pietà cristiana. Il suo probabilismo , che si opponeva sia al rigorismo giansenista, influenzato dal protestantesimo puritano, sia a un certo lassismo volgare, sorto come reazione eccessiva al rigorismo - costituisce la più sicura garanzia contro i sogni utopistici e ricorda, in opposizione a quanti pensano che il progresso storico porterebbe alla graduale estinzione del male, che la perfezione non è di questo mondo. Se si considera che, fra tutti i Dottori della Chiesa, sant'Alfonso è stato definito "il più letto" dai comuni fedeli, che la maggioranza del clero - in Italia come in Francia - ne adottò le massime nella pratica quotidiana del confessionale e che egli, per oltre un secolo, ha rappresentato la massima autorità riconosciuta nel mondo cattolico nel campo della teologia morale, si comprende il ruolo decisivo che questa figura ha avuto nel radicare un sano realismo di fronte a tutte le utopie e nel riformulare un ethos italiano di fronte alla sfida della Modernità.



Ragguaglio del miracoloso ritrovamento delle sagre particole rapite nella Parrocchia di una terra della diocesi di Napoli nello scorso anno 1772


Essendo io stato informato da più persone dell'accennato prodigio, che ora sono distintamente, benché in breve, a narrare, procurai di averne prove bastanti a poterlo pubblicar colla stampa; onde mi riuscì prima di averne una piena relazione del fatto scritta da un sacerdote dello stesso paese, che fu uno de' testimoni del miracolo avvenuto; ma non contento di ciò, ho voluto leggerne co' propri occhi il processo autentico che giuridicamente ne ha formato la curia arcivescovile di Napoli per ordine dell'eminentissimo presente arcivescovo signor cardinal Sersale. Il processo è ben voluminoso di 364 pagine, essendosi con molta diligenza da' ministri della curia preso l'esame del fatto da molti testimoni, sacerdoti e secolari, che tutti concordemente l'han deposto con giuramento. Nell'anno 1772 nella terra detta di S. Pietro a Paterno, luogo della diocesi della città di Napoli, avvenne che ritrovossi in una mattina, alli 28 di gennaio, nella chiesa parrocchiale aperta la custodia ove stava riposto il SS. Sagramento dell'altare, e si videro mancare le due pissidi che vi erano, l'una più grande, l'altra più piccola, con tutte le particole, ch'erano molte. Onde per molti giorni stiè in lutto e pianto tutta la gente del paese; e per quanta diligenza si fosse fatta, non poté aversi notizia alcuna né delle pissidi né delle sagre particole. Ma ecco che nel giovedì 19 di febbraio, un certo giovine Giuseppe Orefice, di anni 18 in circa, passando la sera vicino ad un territorio del signor duca delle Grottolelle, vide una quantità di lumi a guisa di stelle risplendenti. Lo stesso vide nella sera susseguente; onde giunto a sua casa, riferì quanto avea veduto a suo padre, il quale non gli diè credenza. Nel giorno seguente, passando il padre con Giuseppe e 'l suo fratello per nome Giovanni, di età di anni undici, per quel luogo un'ora avanti giorno, il piccolo figliuolo, voltandosi a suo padre, gli disse: Padre, ecco là i lumi, de' quali iersera vi parlò Giuseppe, e voi nol voleste credere. Nella sera dello stesso giorno i suddetti figli, ritirandosi a casa, di nuovo nel medesimo luogo videro i lumi. Di ciò ne fu fatto inteso il confessore del nominato Giuseppe Orefice, D. Girolamo Guarino, il quale insieme con un altro sacerdote, D. Diego, suo fratello, si portò al luogo dei lumi veduti; e frattanto mandò a chiamare l'Orefice, il quale, giunto ivi con suo fratello, ed un altro chiamato Tommaso Piccino, ritornarono a vedere i lumi; ma per allora i sacerdoti nulla videro. Nella sera poi del lunedì, alli 23 di febbraio, l'Orefice ritornò di nuovo al solito luogo col Piccino, e con un altro uomo, Carlo Marotta; e per la strada incontrarono due forastieri da loro non conosciuti, da' quali fermati, furono interrogati che cosa mai fossero quei molti lumi che attualmente in quel territorio si vedevano distintamente, che scintillavano a modo di stelle. Risposero che non sapeano, e licenziandosi da quei forastieri, si portarono di fretta a segnare il luogo dove allora aveano veduti que' lumi. E segnato il luogo, ch'era distante alquanti passi dalla siepe, ed in cui eravi un pioppo più grande degli altri, andarono a ritrovare i nominati due sacerdoti, loro raccontarono quanto ad essi era occorso, e tutti insieme poi ritornarono al luogo segnato. Ivi giunti tutti insieme con un fanciullo di cinque anni, nipote de' due sacerdoti, il fanciullo si pose a gridare: Ecco là i lumi che paiono due candele. E qui si avverta che questi lumi non comparvero sempre della stessa maniera. Quei due lumi nel medesimo tempo li vide l'Orefice, dicendo che luceano come due stelle, e li videro ancora gli anzidetti Carlo e Tommaso, e tre altri figliuoli de' signori Guarino, appunto vicino al pioppo già designato. Dopo ciò udirono molte grida di gente, la quale dal pagliaio ch'era in mezzo a quel territorio, invitava i preti di venire a vedere in quel pagliaio un gran lume a guisa di fiamma ch'erasi veduto ivi. Una donna intanto, chiamata Lucia Marotta, si buttò di faccia a terra sovra quel luogo in cui si era veduto il lume. Accorsero i sacerdoti e molte altre persone, e fatta alzare la donna, si cominciò a cavare quel luogo, ma per allora nulla si ritrovò. Quindi ritirandosi al paese i due fratelli Giuseppe e Giovanni Orefice, insieme con Tommaso Piccino e Carlo Marotta, giunti alla strada regia, udirono le grida di più persone ch'erano rimaste nel territorio, ed ivi ritornati, il Piccino cadde di botto colla faccia a terra, ed appresso Giuseppe, avendo dati pochi passi, si sentì spinto da dietro le spalle, ed egli ancora cadde di subito colla faccia a terra. Nello stesso modo e nello stesso tempo caddero parimente gli altri due, cioè Carlo Marotta e Giovanni, fratello di Giuseppe; e tutti quattro s'intesero offese le teste, come se avesser ricevuto un gran colpo di bastone. Alzati che furono, si avanzarono per pochi altri passi, e tanto Giuseppe, quanto Carlo, Tommaso e Giovanni videro da sotto un pioppo poco distante uscire un grande splendore a guisa di sole; e videro tutti e quattro nel mezzo di questo splendore alzarsi in alto per quattro o cinque palmi una palomba, che poco differiva dallo stesso splendore; ma la colomba, calando poi nel terreno a piè dell'albero, donde era uscita, disparve e disparve allora anche lo splendore. Che cosa mai quella colomba avesse potuto significare, non si sa; ma sembra certo che fu cosa soprannaturale; e tutte le nominate persone l'attestarono con giuramento davanti il vicario generale di Napoli. Dipoi stando tutti nel medesimo luogo gridarono: Ecco qua i lumi; e postisi in ginocchioni, cominciarono a cercare le sagre particole. Mentre il Piccino scavava quel terreno colle mani, videro uscire una particola bianca come carta. Si mandarono allora a chiamare i preti; venne il sacerdote D. Diego Guarino, il quale inginocchiatosi prese la sagra particola e la pose in un fazzoletto bianco di lino fra le lagrime e le tenerezze di tutta quella gente che dirottamente piangeva. Indi si pose il detto sacerdote a far più diligente ricerca; ed avendo smosso altra porzione di terreno, vide subito comparire un gruppo di quasi 40 particole, che non aveano perduta la loro bianchezza, benché fossero state ivi sotterrate per lo spazio di poco meno d'un mese, dacché furono rapite. Le pose nello stesso fazzoletto, e fu raccolta la terra in cui quelle si erano trovate. Al rumore accorsero altri sacerdoti del paese, i quali fecero portare colà, pisside, cotta, stola, baldacchino e torcie, e frattanto andarono un sacerdote ed un gentiluomo a monsignor vicario per intendere quel che dovesse farsi. Venne l'ordine che si portassero le particole processionalmente nella chiesa; e così si fece: e le particole giunsero alla chiesa verso le cinque ore e mezza della notte, e furono riposte nel tabernacolo. Ciò avvenne nella notte de' 24 di febbraio. La gente rimase consolata, ma non appieno, perché mancava la maggior parte delle particole, secondo il conto che si faceva. Ma ecco che nella sera del giorno seguente, martedì 25 del mese, nello stesso luogo di prima di nuovo si vide comparire un piccol lume, ma assai risplendente, da molte persone, contadini, gentiluomini, ed anche da sacerdoti, quali furono D. Diego Guarino, e D. Giuseppe Lindtner, da cui ebbi scritta la prima relazione, come dissi a principio. Questo sacerdote allora tutto sbigottito additò una pianta di senape che ivi stava, e cominciò a gridare: Oh Gesù! Oh Gesù! Vedete là quel lume, vedetelo. Ed allora videro anche gli altri un lume lucentissimo, che si alzava un palmo e mezzo da terra, e formava nella sommità la figura d'una rosa. Asserisce il più volte nominato Giuseppe Orefice, il quale anche vi stava, che il lume fu sì risplendente, che per qualche tempo gli rimasero gli occhi offesi ed offuscati. Si fece allora di nuovo diligenza in quel luogo per ritrovare il resto delle particole; ma nulla si ritrovò: ma nella sera del dì vegnente, mercordì 26 di febbraio, fu veduta una quantità di lumi dintorno al pagliaio del territorio da tre soldati a cavallo, del reggimento detto Borbone, cioè da Pasquale di Sant'Angelo, della diocesi d'Atri e Penne, da Giuseppe Lanzano romano, e da Angelo di Costanzo dell'Acerra, che tutti furono esaminati nella curia arcivescovile; questi deposero dinanzi a monsignor vicario, come girando essi dintorno alla real villa di Caserta, ove allora risiedeva la maestà del re, videro nel territorio di sopra descritto più lumi come stelle luminose: sono le proprie parole de' soldati registrate nel processo. Di più, nella stessa sera del 26, ritornando dalla città di Caserta il signor D. Ferdinando Haam, gentiluomo di Praga in Boemia, cancelliere e segretario, per la spedizione delle lettere dell'ambasciata della maestà imperiale e reale apostolica, e passando verso le tre ore di notte per la strada regia vicino al mentovato territorio, smontò dal calesse per andare anch'egli a veder quel luogo dove aveva inteso essersi due giorni prima trovate le particole rubate. Giunto là, vi trovò molta gente, e tra gli altri il suddetto prete D. Giuseppe Lindtner, ch'era suo conoscente: questi gli riferì tutto il fatto così del furto, come del miracoloso ritrovamento delle particole. Ma il signor Haam, dopo aver inteso quel che gli disse il prete, gli raccontò che anch'egli otto o nove giorni prima, nel passare per quel luogo ad ore tre di notte in circa, alle 17 o 18 dello stesso mese, quando non ancora aveva udito parlare né del furto né delle particole prese né de' lumi veduti, vide una gran quantità di lumi che arrivavano a migliaia; e nello stesso tempo vide una gran quantità di persone che taciturne e divote stavano dintorno ai detti lumi. A tal vista egli rimase molto raccapricciato, e dimandò al vetturino che cosa fossero quei tanti lumi; quegli rispose che forse accompagnavasi il SS. Viatico a qualche infermo. No, replicò allora il signor Haam, ciò non può essere, perché si udirebbero almeno suonare i campanelli. Onde sospettò che quei tanti lumi fossero effetto di qualche stregoneria; tanto più che il cavallo si era fermato, e non volea passare avanti: e perciò fe' scendere il vetturino dal calesso, ma per allora non fu possibile far camminare il cavallo, che tutto spaventato sbruffava; ma finalmente dopo molti stenti il cavallo, tirato quasi a forza fuori della strada, che corrispondeva al territorio divisato, si pose a correre con tal fuga, che disse il vetturino queste precise parole: Gesù, che sarà questo? e così il detto signor D. Ferdinando se ne andò in Napoli sorpreso da un gran timore. Tutto ciò ha deposto esso medesimo di persona nella curia arcivescovile, come si legge nel processo fol. 66 e seg. Nella sera poi del giovedì, alli 27, verso un'ora di notte i nominati Giuseppe Orefice e Carlo Marotta si portarono allo stesso territorio, ove trovarono il pagliaio fatto bruciare da' sacerdoti D. Girolamo, e D. Giuseppe Lindtner, a fine di far miglior diligenza per le particole che mancavano; e trovarono di più Giuseppe Piscopo, Carmine Esposito, e Palmiero Novello, che prostrati a terra piangeano, per aver veduto innanzi di loro comparire e disparire più d'una volta un piccol lume. Lo che sentendo l'Orefice, inginocchiato cominciò a recitare a voce alta gli atti di fede, speranza, e carità; in fine de' quali ritornò a vedere insieme cogli altri che vi erano quel lume che compariva come un ceretto acceso, il quale più volte -secondo depose l'Orefice -si alzava quattro dita da terra donde era uscito, ed ivi tornava a nascondersi. Dopo ciò, posto sovra quel luogo ov'era apparso il lume un segno per non ismarrirlo, l'Orefice ed il Marotta andarono a darne parte al prete D. Girolamo Guarino, il quale subito portossi in quel luogo, e vi ritrovò più persone inginocchioni; ed egli si pose a far diligenza sovra il terreno in cui si era posto il segnale. Allora nuovamente da molte persone si vide il lume, e 'l Guarino che nulla vedea, fece colla mano sul terreno un segno di croce, ed ordinò al suo fratello Giuseppe, che con uno stromento villareccio che teneva in mano avesse scavata la terra dalla parte sinistra di quel segno di croce impresso sul terreno, ch'era stato suolo del bruciato pagliaio; ma nulla si trovò. Non però quando si pensava di fare scavare in altra parte, Giuseppe Orefice che tuttavia stava inginocchiato, poggiando la mano in terra, e trovandola molle e cedente, ne avvisò il Rev. Guarino; questi, con un coltello che fe' darsi dal suo fratello, diè con quello un colpo sul luogo segnato colla croce, e nel profondarlo che fece intese un certo romore, come quando si frangono più ostie unite insieme. Tirando poi fuori il coltello, tirò unita a quello una zolla, cioè un pezzo di terra di figura rotonda, ed unito alla zolla vide un gruppo di molte particole. Sbigottito il sacerdote a tal vista, gridò attonito: Oh, oh, oh e poi cadde come in un deliquio, in modo che gli mancò la vista, come egli ha deposto, ed avendo perdute le forze, gli caddero di mano il coltello, la zolla e le particole. Rinvenuto poi che fu il Guarino dal suo svenimento, si cavò dalla saccoccia un bianco fazzoletto di lino, e ponendovi le particole, le ravvolse e ripose nello stesso fossetto in cui si eran trovate; poiché, per lo gran tremore che gli era sopravvenuto, specialmente nelle braccia, non avea forza di reggersi. Di ciò essendo stato informato il signor Parroco, subito si portò al luogo dove ritrovò tutti che stavano genuflessi innanzi a quel sagro tesoro nascosto; onde informatosi meglio del succeduto, ritornò alla sua chiesa, e di là mandò il baldacchino, l'ombrella, il pallio, molte torce di cera, ed un calice, in cui furon riposte le sagre particole; e quindi il pallio e l'ombrella dagli assistenti tenevansi spiegati sopra d'un tavolino coperto di seta, e molte persone colle torce accese in mano stavano genuflesse dintorno al Sagramento, con molto popolo accorsovi non solo dal paese, ma anche da altri casali, coi loro sacerdoti, e tutti piangeano per tenerezza. Frattanto si partirono il sacerdote Lindtner ed il signor Giuseppe Guarino per andare a trovare monsignor vicario, e ritornarono verso le dieci ore coll'ordine di trasferirsi solennemente colla processione le ritrovate particole alla chiesa parrocchiale di S. Pietro a Paterno. E così fu fatto, cantando tutti per via lodi al Signore. Giunti che furono alla chiesa, fu data loro la benedizione col medesimo calice, in mezzo alle lagrime e gridi di tenerezza di tutto quel popolo che non si saziava di piangere e di ringraziare il Signore che così gli avesse consolati. Di simili prodigi miracolosi, in conferma della verità del SS. Sagramento operati, se ne leggono molti nelle antiche istorie; anch'io nella mia opera dell'Istoria dell'Eresie2 ho narrati più esempi circa questa materia al tempo dell'empio Wicleffo, che fu il primo tra gli eretici moderni a negare questo venerabil Sagramento; ma in quello stesso tempo Iddio, per confondere la loro incredulità, operò vari prodigi, da me scritti nel mentovato libro al Cap. 10, num. 36 e 37. Ma non mancano alcuni spiriti critici che ricusano universalmente di credere a tali prodigi antichi, dicendo: Ma chi l'ha veduti? Se taluno pero volesse mettere in dubbio anche quello da me narrato e provato con tanta esattezza dalla curia arcivescovile di Napoli, ben egli può accertarsene facilmente con andare al nominato paese di S. Pietro a Paterno, poco distante dalla città, dove troverà molti secolari ed ecclesiastici, i quali gli attesteranno che i prodigi riferiti gli han veduti co' propri occhi. Del resto dicano altri ciò che vogliono, il fatto narrato io lo tengo per più che certo, e perciò ho voluto farlo palese al pubblico colla stampa. È vero che il miracolo descritto non merita altra fede che puramente umana; nondimeno tra i fatti di fede umana non so se possa esservene un altro che meriti più credenza del narrato, attese le informazioni con tanta diligenza prese dalla curia di Napoli, e le testimonianze non già di femminelle credule, ma di 17 maschi, secolari e sacerdoti, che hanno deposto giudizialmente con giuramento quel che han veduto cogli occhi propri. Tutte queste circostanze che formano tanti caratteri di verità, rendono il fatto più che moralmente certo. Onde spero che tutti coloro che lo leggeranno non vorranno esser duri a crederlo, ma si adopreranno a pubblicarlo per gloria del SS. Sagramento dell'altare.



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